|
GameMaster
|
Tutti lo temevano, ma ora la certezza arriva come uno schiaffo in pieno viso: la Golden Lady Company, proprietaria dello stabilimento Omsa di Faenza, ha raggiunto un accordo con il governo di Belgrado per l’apertura di un nuovo impianto (il terzo nella regione). Ai lavoratori e ai sindacati però nessuno lo aveva detto, la notizia infatti è trapelata grazie alla stampa locale serba che ha dato l’annuncio dell’accordo. Eppure l’occasione non era mancata: il 20 luglio proprietà e sindacati si erano incontrati per fare il punto della situazione, sperando magari di trovare ancora qualche spiraglio di accordo per l’acquisizione o la riconversione dell’impianto. Ma anche in quell’occasione il silenzio più assoluto.
«Abbiamo appreso dell’accordo dai giornali locali», ha spiegato Samuela Meci impiegata della Omsa, indignata perché «a questo imprenditore è stato permesso di chiudere un’azienda italiana in salute e che fatturava, di 350 persone. La proprietà ha avanzato lo stato di crisi per giustificare la chiusura dello stabilimento – spiega arrabbiata –. Inizialmente pensavamo che con la crisi e la saturazione degli impianti serbi già esistenti la pista estera sarebbe stata accantonata. Dove ha trovato i soldi per investire in un altro stabilimento? Il tutto poi senza che nessuno, soprattutto il Ministero, abbia posto dei vincoli e fatto richieste a tutela della forza lavoro in Italia».
La Omsa fa parte del gruppo Golden Lady, fondato nel 1967 da Nerino Grassi che ne è il presidente. Il gruppo commercializza anche i marchi SiSi, Filodoro, Philippe Matignon; in Italia detiene il 50 per cento del mercato delle calze da donna, esporta il 55 per cento della propria produzione e distribuisce tramite distributori, filiali e 400 negozi monomarca Goldenpoint. Nel 2000 ha acquisito la statunitense Kayser-Roth con i marchi NoNonsense e Hue, quattro unità produttive, 1.500 dipendenti e il 18 per cento del mercato Usa delle calze da donna.
Ora il Gruppo - che conta oltre 5 mila dipendenti, fattura 540 milioni di euro e ha 16 stabilimenti - tramite la VaLy, da esso interamente controllata, ha inaugurato un’altra unità produttiva di 10 mila metri quadrati a Valjevo in Serbia, a 100 chilometri da Belgrado. «Un gruppo solido di grande esperienza che rappresentò per l’Italia – racconta Samuela – un baluardo dell’emancipazione femminile nel dopoguerra perché quasi tutti i dipendenti erano donne (come oggi del resto). Omsa inizialmente era di proprietà di Arnaldo Grassi, fratello di Nerino (80 anni) che poi l’acquistò. Tutto sembrava andare bene, poi dal 2001 l’azienda cominciò ad investire all’estero. Il governo, rappresentato allora da Adolfo, il vice ministro delle attività produttive, ci rassicurò dicendo che la filiera sarebbe rimasta in Italia».
La scelta di “fuggire” in Serbia, quindi, non è legata alle difficoltà di un gruppo che non fa profitti, tutt’altro. I profitti ci sono ma per i “padroni del vapore” sono sempre troppo pochi e spostare la produzione in Serbia significa guadagnare ancora di più sui costi del lavoro (inferiori ai nostri anche sul piano dei diritti sindacali) e grazie alla fiscalità di vantaggio che i governi locali assicurano alle imprese.
Le sirene dello stabilimento che annunciavano i turni dettavano i tempi ad una intera comunità e ora anche i sindacati se la prendono con la politica che «avrebbe dovuto puntare i piedi», contro un fuga in piena regola. «Il governo è praticamente inesistente. Nell’ultimo incontro tenuto il 13 luglio – spiega la Filctem faentina – il capo della task force del ministero per le crisi aziendali, Gianpietro Castano, non ha fatto altro che prendere atto di quanto diceva l’azienda senza pretendere nulla. Da allora il silenzio».
Ora, finita la processione dei politici che in campagna elettorale facevano la fila per andare a fare visita alle lavoratrici in lotta davanti allo stabilimento ravennate, resta la cassa integrazione (dal 15 marzo, da quando è scattata la Cigs per cessazione attività, lavorano in 160 a rotazione due turni di 4 ore ciascuno).
«Avevamo chiesto i contratti di solidarietà fino all’arrivo di un nuovo acquirente – dice la Cgil - ma non c’è stato nulla da fare. L’azienda non ha mai voluto collaborare».
Lo stabilimento proseguirà la parziale attività produttiva fino a settembre, ma se a marzo del prossimo anno almeno il 30% non troverà una ricollocazione, la cig cesserà per tutti. E al momento, nonostante la ricerca di possibili nuovi acquirenti (si è parlato di un imprenditore nel settore caseario) o di una riconversione del sito faentino, non si intravedono altre possibilità. «Penso che sia necessario che tutti comincino a prendere posizioni forti contro le aziende che nei loro piani strategici decidono una delocalizzazione così forte da mettere a rischio i posti di lavoro in Italia», ha avvertito Samuela Meci, mentre prosegue la dismissione delle macchine portate fuori dallo stabilimento di Faenza e che, secondo i sindacati, finiranno in parte nell’impianto di Mantova e in parte nella nuova fabbrica in Serbia.
Dopo la Fiat, Dainese, Geox, Bialetti, Rossignol, Ducati, Energia, Benetton, Calzedonia, Stefanel, Telecom Italia, Wind, H3g, Vodafone, Sky Italia (solo per dirne alcune), prosegue la fuga delle multinazionali dall’Italia attraverso processi di delocalizzazione legati a strategie logistiche e di risparmio più che di investimento con gravi ripercussioni per il nostro Paese. Se guardiamo le cifre legate alla disoccupazione da marzo 2009 a marzo 2010 il numero di occupati è diminuito di 367 mila unità mentre la disoccupazione giovanile si è attestata sul 30%. E, come il caso Fiat dimostra, non si vedono luci all’orizzonte.
Ormai o lavoriamo alle condizioni dei cinesi o le aziende chiuderanno tutte!
|